Giro del Pelmo (con brivido!)

    di Dario Facchin - CAI Conegliano       

 

           

6 dicembre 1998: Arabba prevede nuvoloso, clima rigido, venti freddi in quota e nulla sul rischio neve vista la scarsità. Alle 9 dalla Forcella Staulanza entriamo nel bosco per iniziare il giro del Pelmo. Temperatura –10° (ma calerà) vento poco (ma aumenterà). In alto il Pelmetto inondato dal sole è avvolto dalle volute di neve alzate da un vento il cui fragore arriva fin qui. Ma è meglio guardare dove mettere i piedi perché sulle risorgive che d'estate sono fangose il leggero strato di neve fresca cela il ghiaccio. Il cielo specie verso Civetta Moiazza ha nuvole minacciose ma sopra di noi è azzurro. Dopo qualche saliscendi troviamo il sole ma in breve cambia e inizia a nevicare. La visibilità rimane buona e proseguiamo la lunga scarpinata sul sentiero ora largamente tagliato tra mughi che proteggono dalle raffiche di vento.

 

Il tempo migliora e dopo essere passati sotto lo spettacolare tetto della "Dambra" saliamo l'ultimo tratto fino all’ampio passo di Rutorto. Oltre ai turbini di neve in faccia ci accoglie una sfolgorante vista sul Sorapiss in pieno sole. Stefano deve interrompere la doverosa sequenza di foto per inseguire un guanto che ha deciso di tornare di corsa verso casa. Alla fine ci cacciamo infreddoliti nel ricovero invernale del rif. Venezia e diamo fondo alle provviste (e al brandy!). Le uniche 3 persone incontrate ridiscendono subito verso climi più miti. Le ore di luce sono poche e dopo oltre un'ora di sosta e di denti che battono ripartiamo. Tre ore dovrebbero bastare ma bisogna vedere com’è d’inverno il tratto fino a Val d’Arcia che ricordo avere passaggi un po’ scabrosi.

 

          Alle 13 iniziamo a salire sul sentiero individuabile per un maggiore accumulo di neve rispetto al pendio quasi ripulito dal vento. Dopo l'attacco della cengia di Ball traversiamo sotto il lungo e ripido canalone di Forca Rossa e scartiamo l'idea di percorrerlo non conoscendone il percorso e per il dislivello maggiore.

 

Salita una ripida erta sbuchiamo su una selletta dalla quale iniziano le difficoltà. Si va a sinistra per una cengia a tratti attrezzata con fune semisepolta dalla neve e tenendosi alle roccette soprastanti occorre scavare ogni passo fino a quando sembra (si spera!) solido. Il vento ha creato accumuli in cui si entra ben oltre il ginocchio e preferisco non guardare le piccole lastre che stacco partire verso i salti sottostanti. Un punto in discesa un po' ostico lo superiamo con un salto su un ripiano sottostante. Calziamo i ramponi e le cose vanno un po' meglio. Perdiamo comunque parecchio tempo al quale si aggiunge anche una divagazione per una cengetta errata che ci costringe ad un comico passo del gatto anche in versione retromarcia: una goduria per le ginocchia intirizzite. Mezzo incastrati con lo zaino sul tetto della cengia ridendo nervosamente superiamo il malpasso e ci caliamo nel lungo e ripido canalone innevato che sale in forcella Val d'Arcia.

 

                In questo tetro angolo del vallone il freddo (sui –15°) è veramente intenso nonostante l’affanno della salita. Fare traccia è duro e spesso mi fermo a rifiatare. Devo cercare le zone più dure per evitare di sprofondare. Poco prima dell’uscita ci prepariamo ad affrontare la bufera che si vede spazzare la forcella. Cambio i guanti di pile ghiacciati dalle continue immersioni nella neve e con le moffole imbottite le mani ormai intorpidite si scaldano. A quasi 2500 m. l'ombroso canalone ci consegna ad un sole che non scalda per nulla. Mi faccio fare una foto proteggendomi gli occhi dalle sventagliate di neve che il vento impetuoso trascina con effetto sabbiatrice. Qualsiasi operazione che richieda l'uso delle dita va fatta velocemente perchè senza guanti sento subito le mani perdere mobilità.

 

                Sono quasi le 16 e siamo lontani. Da questa parte il vento ha lavorato molto. Rispetto al tratto dopo il Venezia che era quasi scoperto qui è tutto bianco seppure di spessore limitato. Solo nel canalone appena salito era più fonda ma la neve sembrava sicura. Invece qui appena scendiamo verso il fondo della Val d'Arcia vicino a noi si stacca una lastrina di neve. Brutto segno ma ormai dobbiamo continuare. Nel solco della minislavina scendiamo lo scomodo e ripido pendio di sfasciumi in apparenza spianato dalla neve fresca ma che invece alterna accumuli profondi a strati sottili dove i ramponi si agganciano alle pietre. Li tolgo ma sempre lentamente proseguiamo senza però arrivare in fondo per non dover poi risalire. Tagliamo quindi i pendii verso SO passando sotto Forca Rossa che da qui appare molto più comoda.

 

                Comincio a preoccuparmi per il pendio che tagliamo ma mi ripeto che la poca neve presente può al massimo far partire piccole lastre superficiali tipo quella di prima. Quando verso la fine del tratto a mezza costa all’affondare del passo sento propagarsi dei fruscii attorno a me dico a Stefano di tenersi indietro per caricare meno. Faccio poche decine di passi che improvvisamente il pendio attorno a me inizia a frantumarsi in lastre di varie dimensioni e con spessore di pochi centimentri. La cosa si propaga in alto per almeno venti metri e con spessori maggiori. Mentre sto per imitare Stefano che si allontana di corsa mi accorgo che sopra il pendio si rompe sempre di più da quella parte e pensando di non fare in tempo a scappare decido di provare a resistere in piedi almeno il tempo sufficiente a far passare abbastanza neve da non essere sul fronte della valanga. Però appena arrivano le prime lastre più spesse che scorrono sullo strato duro non reggo e mi sento trascinare giù.

 

Dopo un passo o due verso il basso mi ritrovo steso supino con i piedi a valle che scendo sopra alla slavina. Cerco di mantenermi a galla allargando braccia e bastoncini. Mi rendo conto che non è una semplice scivolata su una lastrina di neve instabile ma che sono al centro di una vera slavina. La neve che si muove intorno a me è tanta e quel che è peggio ne ho molta dietro. Lotto un po' con le braccia per mantenere le lastre sotto di me sempre tenedomi supino e il più steso possibile perchè così mi pare di non farmi affondare dai movimenti sottostanti. Comincio a prendere velocità e realizzando che la situazione è fuori dal mio controllo comincio ad avere paura. Posso solo sperare. Il fondo del pendio si avvicina e punto dritto su un masso. Quando sto per sbatterci alzo le gambe per attutire l'impatto e cercare di passarci sopra temendo soprattutto di restarci bloccato davanti con la massa di neve in arrivo che mi seppellirebbe. Invece non lo sento nemmeno e grazie alla neve che ho davanti ci passo sopra. Sto rallentando e sento aumentare la pressione dei blocchi di neve attorno a me. Poi sono fermo. E sono quasi tutto fuori.

 

Dall'alto Stefano mi urla di togliermi ma voltandomi vedo gli ultimi cumuli che si stanno fermando dietro a me. Del masso neanche più l'ombra, è sommerso. Ora tutto è fermo e appoggio la testa sulla neve per tirare il fiato: che spago! Confermo a Stefano che è tutto ok e gli dico che già che c'è mi faccia almeno una foto. Estraggo la gamba affondata fin sopra l’anca e inizio la risalita vero il dosso dove eravamo diretti. Vista la brevità del tratto e forse un po' scosso salgo direttamente fuori dal solco della valanga che saprei più sicuro. E anche qui ad ogni movimento si aprono crepe in tutte le direzioni e per un attimo temo di riuscire nell'exploit di finire in 2 slavine nel giro di 5 minuti. E pensare che ho sempre detto che dopo 15 anni che anche d'inverno vado in montagna non avevo mai visto cadere una slavina. Ma mi sarei accontentato di vederla!

 

                Riuniti in cima al dosso scatto una foto al mio capolavoro. La quota è sui 2300, la slavina si è staccata pochi metri in orizzontale dal dosso dove eravamo diretti e dove saremmo stati al sicuro. Evidentemente lì il vento aveva accumulato più neve e aveva creato una crosta che teneva su tutto il pendio. Tagliata a più di 50 m. dal fondo questa fragile crosta superficiale è andata in pezzi fin ben più in alto della nostra traccia e m’ha trascinato fin sul piano dove ha formato un bel accumulo largo sui 20 m. Ora penso che se fossi subito scappato verso Stefano avrei fatto in tempo a sfuggire o almeno a trovarmi sul margine laterale.

 

                Un gelido tramonto arrossa le cime più lontane e le poche nuvole, ma è tardi per godersi il bel panorama. Da questo pianoro non si capisce se sotto ci siano o meno salti e cercando la via migliore ci teniamo a sinistra perchè ricordo che anni fa ero salito da quella parte per fare la Forca Rossa con gli sci. A fatica avanziamo nella neve qui piuttosto alta. Ora fa traccia Stefano che ha capito che non sono più in gran forma. Finora ho battuto io e dopo questa emozione mi sento piuttosto scarico. L'incidente mi ha messo di cattivo umore e nella mia mente si rincorrono i “se”. Soprattutto mi irrita il fatto di aver corso un vero rischio senza riuscire a prevederlo. Forse ai primi segni che pur avevo avvertito potevo scendere in fondo al vallone, oppure salire fin sotto le rocce in modo che l'eventuale slavina partisse sotto. Però non so se queste soluzioni avrebbero funzionato e ormai non avevo alternative al passare di là. Inoltre l’ora tarda porta ad evitare perdite di tempo e una certa mancanza di lucidità deriva anche dalla stanchezza accumulata in una giornata di fatiche e di esposizione a questo gelo che brucia molte energie. Ma l'errore principale è stato credere che lo scarso innevamento escludesse pericoli di slavine. Vabbè, tutta esperienza!: anche poca neve e pendii brevi possono nascondere insidie, specie se ci ha messo lo zampino il vento.

 

                Scendendo un po' a caso arriviamo sopra un ripido e lungo pendio. Un profondo canalone ci impedisce di puntare verso il Pelmetto. In fondo alla valle si vedono già i fari delle macchine che salgono i tornanti di f.lla Staulanza. Ormai ci basterebbe arrivare al sentiero che traversa in basso prima del buio totale; oltretutto non c'è luna. Sebbene più scomodo scendiamo lungo un tratto con massi affioranti perché ora le vicine e lisce distese di neve ci attirano poco. Barcollando sugli instabili sfasciumi nella semioscurità intravediamo finalmente la traccia innevata che cercavamo e che seguiamo in direzione Staulanza.

 

                Stefano toglie i ramponi e tiriamo fuori le frontali. E' praticamente buio ma le teniamo spente perchè senza la luce vicino si indovina meglio a distanza la striscia più chiara del sentiero. A tratti lo perdiamo ma in qualche modo lo ritroviamo. Siamo stanchi ma l’impegno non è finito. Non sappiamo chi abbia in gestione questo sentiero ma di sicuro ora gli fischiano le orecchie alla grande. In certi tratti occorre nuotare tra mughi e ramaglie varie ovviamente coperti di neve polverosa che si infila gradevolmente giù per il collo.

 

                Si sale non poco e alla fine arriviamo al bosco e al sospirato scollinamento. E’ buio pesto e procediamo grazie alle frontali. La scarsa portata crea qualche dubbio ma scendiamo senza grossi problemi quando di colpo mi ritrovo pesantemente a terra. Con un braccio ammaccato mi rialzo ma subito mi esibisco in un'altra sforbiciata. Capito che sotto la neve c'è un lastrone di ghiaccio rinuncio alla posizione eretta e gattoni nella neve attraverso il letto gelato del ruscello: sarà poco dignitoso ma almeno non cado da molto alto. Stefano tenta invece di proseguire in modo meno ridicolo ma un bel tonfo mi fa capire che non ha avuto miglior fortuna. Pareggiate le contusioni in pochi minuti arriviamo alla macchina. Sono passate le 18 e di questo gelo trovo come unico lato positivo che nonostante le continue immersioni nella neve (slavina compresa) ho il vestiario asciutto: troppo freddo perché la neve lo bagni.

 

                In auto finalmente rilassati ammiriamo l'ultima grande opera degli impianti della Val di Zoldo che non contenti di aver subito un sequestro della seggiovia di Palafavera per lavori non autorizzati e di aver sbancato un'intera cresta per costruire una pista autostrada hanno pensato bene di illuminare a giorno l'intera pista Foppe di Pecol. La striscia luminosa si nota già appena lasciata la Staulanza. Oltre al giornaliero potranno vendere anche il "notturno" ma la cosa sembra interessare poco alla splendida volpe che a Igne tranquillamente ci passa davanti nel suo bel colore rossiccio con la punta della coda bianca. Sicuramente questo incontro ci è più gradito delle ultime trovate di Sciolandia.