Pelli di vera foca

di Leonardo Lupi - CAI Conegliano 2006

Negli anni dell'immediato dopoguerra, iniziando in Val Rosandra, ho cominciato a conoscere e ad amare la montagna. Era un periodo pionieristico sia per le attrezzature che per i mezzi di trasporto utilizzati per raggiungere le località alpine.

Si usavano i camion attrezzati, cioè degli autocarri "telonati" con due panche legate ai lati del cassone dove prendevano posto i gitanti. Con questi mezzi, per andare a sciare c’era da morire di freddo, ma l’atmosfera che si stabiliva tra i compagni di gita era fantastica, assolutamente unica, dove canti e grappa per tutta la strada, specialmente al ritorno, non mancavano mai. C'era da ridere ad ogni curva e ad ogni colpo di freno, poi le sospensioni a balestra e la durezza delle panche rendevano il viaggio una vera delizia!

Una “grande classica”: circa 4 ore di camion da Trieste a Valbruna, la salita sul Monte Lussari in un paio d’ore con gli sci in spalla, merenda con gli amici e quindi giù, sulla neve fresca fino al nostro mezzo di trasporto per tornare a casa. Oggi questo genere di fuori pista si chiama sci alpinismo, noi lo chiamavamo “una sbrissada sulla neve” perché tra l’altro, da quella parte non c’erano ancora le piste battute.

Spesso andavo da solo in treno da Trieste ad Ugovizza, facevo sosta da Monini per un caffè e poi, sci in spalla, salivo al rifugio austriaco proprio sotto la cima dell’Oisternig. Avevo un paio di sci militari, bianchi, con delle ganasce dove era attaccata la cinghietta che si stringeva sopra la punta degli scarponi e dove era agganciata la molla per la chiusura, il vero attacco. Il piede pertanto restava libero in senso verticale (oggi si fa così il telemark). Talvolta trovavo tanta neve che dovevo salire con gli sci ai piedi dopo aver legato le pelli di foca (vera) con dei legacci che facevano tutto tranne il loro dovere. Un panino e poi giù, attraverso il bosco ed i campi sino alla stazione ferroviaria dove, alle 16,30 passava l’accelerato che in quattro ore abbondanti mi riportava a casa.

Dagli attacchi a molla sono passato, sempre con gli stessi sci di frassino, agli attacchi che chiamavamo Kandahar, una vera conquista, specialmente nelle curve. La notte di Natale del ’49 mi trovavo a Sella Bistrizza; alla mezzanotte ho servito la Santa Messa in una piccolissima chiesa dove il presepio era fatto con stalattiti di ghiaccio appoggiate dalla parte più larga. Un momento magico, indimenticabile. Il giorno di Natale, sempre da solo, mi butto giù per la neve fresca ma, dopo pochi metri, lo sci destro s’infila in una buca e, dato che la punta era piuttosto bassa, ho fatto un volo tremendo. Lo sci si è rotto in tre pezzi ed il Kandahar dal colpo si è allungato a dismisura. Che botta! Pian piano mi sono mosso cercando di capire se mi fossi rotto qualcosa, tutto bene, sicuramente il mio Angelo mi ha salvato nel giorno di Natale. Abbandonato lo sci rotto (ed anche quello intero), e messo nello zaino solo l’attacco allungato, conservato poi per ricordo, sono sceso mestamente e claudicante a prendere il treno.

D’estate il mio punto fisso era il Rifugio Corsi, allora gestito da Severino Dalla Mea, che raggiungevo a piedi con uno zaino pesantissimo in spalla, dalla stazione dei treni di Chiusaforte, per Sella Nevea e poi su, verso il Jof Fuart. Non so quante volte ho fatto l’anello Corsi – Rio Freddo – Pellarini – Mazzeni – Corsi, sia in quota che per sentieri. Il ghiacciaio del Nabois allora era grande e le stelle alpine fiorivano in quantità dietro al Mosè. Ricordi di gioventù con corde di canapa, zaino militare, pantaloni alla zuava di velluto a coste e camicia di flanella rigorosamente a scacchi. A quei tempi la meta dei triestini erano le Alpi Giulie perché più facili da raggiungere in treno, con il camion o in corriera. Naturalmente ho avuto modo di conoscere l’incanto delle Dolomiti, sia d’estate che d’inverno ma le Giulie e le solenni piogge estive restano sempre nel mio cuore come uno dei più bei ricordi di gioventù.

Un piccolo confronto tra ieri ed oggi: gli sci erano di frassino, semplice legno lavorato un po' così ... poi sono comparsi quelli in legno di hikory con le lamine d’acciaio avvitate, e via fino ai nostri giorni dove gli sci hanno peso, dimensioni ed addirittura forme diverse!

E gli attacchi che menzionavo prima? Che comodità quelli di oggi: hanno anche lo ski-stopper! Ed i bastoncini telescopici che si mettono nello zaino... non ho parole.

Le pelli di vera foca si fissavano con un anello di stoffa sulla punta dello sci e si tenevano ferme (eufemismo) con tre fettucce cucite sul bordo allacciate fra di loro. Dopo alcuni minuti di salita si formava uno zoccolo bestiale di neve tra la pelle stessa e lo sci. Oggi le pelli sono sintetiche ed autoadesive, facili da attaccare, aderiscono agli sci, non si rammolliscono e non ammuffiscono durante la stagione morta. Non ammuffiscono!

L’abbigliamento era particolare: panno di lana e cotone, niente di sintetico e l’impermeabilità della giacca veniva fatta con un bagno dove si scioglieva un po’ di acetato di piombo o di alluminio. I pantaloni lunghi, alla sciatora, con il rabbuffo che entrava nei calzettoni. Gli scarponi di cuoio si inzuppavano dopo poche ore sulla neve, per cui bisognava usare grasso in quantità. Due paia di calzettoni di lana, e due di riserva nello zaino, completavano il corredo…..oggi si va a sciare con abiti speciali, leggeri, e con una scatoletta in tasca che fa bip – bip quale richiamo nello sventurato caso di esser sepolti da una valanga….

Rimane però una cosa, forse la più importante che non è cambiata e forse non cambierà mai: la gioia di divertirsi sciando in neve fresca, di godere l’aria pura, dello spettacolo sublime delle nostre Alpi, del dividere fra amici i meravigliosi momenti che solo la montagna ti può regalare.... e la goliardia di un bel panino con il salame da mangiare in compagnia, specie se annaffiato da qualche bottiglia di buon vino.