Un Everest da Sogno

 

Adriano Dal Cin intervistato da Osvaldo Segale - CAI Conegliano 2004

 

Cosa ha significato per te il fatto di aver affrontato la montagna più alta del pianeta?

E' stata senza dubbio una salita piuttosto particolare, nata senza molta convinzione da parte mia perché, avendo io raggiunto solo un altro 8.000 (il Cho Oyu nell'ottobre 2002 - ndr), pensavo di non essere ancora sufficientemente preparato. Fui convinto dall'amico bolognese Giuseppe Pompili il quale, alpinista esperto e molto determinato, aveva già organizzato tutto. E poiché sono occasioni che non capitano tutti i giorni, considerato che l'azienda dove lavoro si era resa disponibile a lasciarmi partire, colsi la palla al balzo e via... Ad onor del vero, questa salita non voleva avere un significato vero e proprio. Semplicemente volevo farla e la ho fatta. Ho sempre avuto una predilezione per gli itinerari di alta quota che tuttavia non si limita alla sola attività alpinistica. Mi piace osservare l'ambiente, la natura nel suo complesso, ma anche conoscere le popolazioni unitamente ai loro usi e costumi, ecc.

Come ti sei preparato fisicamente e psicologicamente per questa avventura?

La preparazione era cominciata un anno prima. Nell'estate del 2003 ero stato in Bolivia con gli amici del CAI di Pordenone ed al mio rientro, ripresi gli allenamenti. Cercai soprattutto di aumentare la resistenza fisica, correndo molto, cercando anche di abbassare il più possibile la soglia di saturazione dell'ossigeno, sottoponendomi ogni 3 mesi a dei test piuttosto importanti.

A tuo avviso quanto affiatamento ci deve essere tra i compagni di salita perché una spedizione come questa possa avere successo?

Il nostro era un gruppo composto da quattro persone: io, Giuseppe e due triestini, Alessandra Canestri e Marco Tossutti. Un gruppo, il nostro, che tuttavia era costituito da due cordate autonome. Alessandra e marco avevano utilizzato uno Sherpa (per i trasporti del materiale in quota - ndr) mentre io e Giuseppe abbiamo dovuto rinunciarvi per ristrettezze economiche. Pertanto in quelle particolari condizioni l'affiatamento diventava importantissimo. Bisognava infatti attrezzare i campi, montare e smontare le tende, portare sulle spalle il materiale che tra l'altro, comprendeva anche le bombole di ossigeno.

Deve essere stata dura.

Non dura, durissima!  D'altronde senza sponsor non potevamo permetterci altre spese. E' stata una nostra scelta.

In genere ti è sempre facile entrare in sintonia con i compagni di cordata?

Da diversi anni frequento Giuseppe Pompili; ci conosciamo piuttosto bene e c'è un certo feeling, per cui non ci sono problemi. Ma anche quando vado con altri amici in genere mi trovo bene, anche perché sono una persona piuttosto aperta e disponibile.

E veniamo al momento più importante della spedizione. Il 20 maggio 2004, alle ore 7.30, raggiungevi l'Everest, a 8.850 metri di quota. Come ricorderai questa data?

Bene e male.

Cioè?

Bene perché senza dubbio c'è stata la soddisfazione per essere arrivato in vetta al primo tentativo. Male per il fatto di esservi arrivato con pessime condizioni meteorologiche, tali da non poter vedere nulla del mondo sottostante. Sotto questo aspetto direi che è stata una delusione. Male inoltre perché poi, durante la discesa, ho avuto un principio di congelamento alle mani. Certo, se fosse andato tutto liscio, la soddisfazione sarebbe stata maggiore, ma tutto sommato non posso neppure lamentarmi.

Torniamo un attimo indietro, quando cioè mancavano pochissimi metri alla vetta. Guardando la cima cosa hai pensato in quel preciso momento?

In quella situazione avevo pensato ad Alessandra Canestri che il 18 maggio, cioè due giorni prima, si era fermata all'ultimo nevaio, praticamente a 30 metri dalla cima. Lei, purtroppo esausta, ha dovuto rinunciare alla vetta. Peccato davvero poiché era orami lì a portata di mano. "Chissà quale sarà stato il suo stato d'animo" mi sono chiesto. Io invece, in quel punto ho stretto i denti e compiendo un ultimo sforzo, sono riuscito a farcela.

Quindi, giunto in vetta, che cosa hai fatto esattamente?

Purtroppo, come dicevo poc'anzi, la visibilità era quasi ridotta a zero. Il tempo era peggiorato, si vedeva solo fino a 50 metri e la visione panoramica era scomparsa. Per prima cosa misono tolto la maschera dell'ossigeno perché mi stringeva fortemente il volto. E' stata una sofferenza per tutta la salita. Poi ho provato un senso di liberazione. Mi sono seduto sullo zaino, mi sono guardato attorno, ho lasciato sul posto una statuetta della Madonna, datami da mia madre e infine, poiché quei 10 metri quadrati che costituiscono la vetta erano stati "monopolizzati" da un alpinista indonesiano con il seguito di 5 Sherpa, mi sono fatto fare la foto da uno di essi e mezz'ora dopo ho iniziato la discesa.

Durante la salita hai mai perso la speranza? Ti eri mai chiesto: "Chissà se raggiungerò la vetta?". Oppure: "Chissà se poi riuscirò a ritornare indietro?".

Fondamentale è in questi casi essere abbastanza determinati ed io lo sono. In queste circostanze, a volte, si vorrebbe rischiare qualcosina in più rispetto ad altre occasioni, però lì non mi sono mai posto queste domande. In genere si va avanti e poi sono gli eventi che ti fanno prendere certe decisioni. Ed è esattamente quello che ho fatto.

Nel tratto di rocce presso l'antecima il tuo sguardo si è imbattuto sul corpo di un sudcoreano trasformato in una statua di ghiaccio. E poco più in giu hai trovato altri due cadaveri. Il volto di uno di essi era bianco da un lato, scuro e bruciato dal sole dall'altro. Che cosa si prova e come si reagisce dinnanzi ad una simile visione? Non hai vauto un momento di sconforto?

Di fronte ad una simile scena cosa si può fare? Lì per lì la guardi un attimo, ti fermi anche per riprendere fiato, e poi, pensando a quello che devi fare, continui sui tuoi passi. Questo tuttavia non significa affatto mancanza di sensibilità. Purtroppo in quel momento non si può più fare nulla, per cui prosegui. Poi invece, appena tornato al campo base, ci ripensi, rivedi la scena, rifletti, ti domandi chi fossero quegli uomini e che cosa poteva essere successo. Sono molte le domande che ti poni senza darti una risposta. Quindi un senso di pietà ti assale. Avrei anche potuto fotografarli ma non l'ho fatto. In questi casi il rispetto s'impone. Pace all'anima loro.

Quei corpi verranno mai recuperati e restituiti alle famiglie?

No. Purtroppo resteranno lassù per sempre. E' troppo difficile e pericoloso recuperarli. Ci sono dei passaggi critici in cui può passare una sola persona, pertanto è veramente impossibile che questo si realizzi.

Torniamo a te. Ad un certo punto, non ricevendo più tue notizie, si temette per la tua vita. Molti ritenevano che fossi disperso. Come andarono esattamante le cose?

La notizia che mi avevano dato per disperso l'ho avuta il 22 maggio, allorché scendendo dal Campo 2, ho incontrato lo Sherpa di un'altra spedizione che chiamava: "Marcoo, ... Marcoo, ...". "Ma Marco - pensai - è già sceso. Ha già fatto la cima il giorno 18. Com'è possibile?". In realtà lo Sherpa stava cercando me e così, dopo l'incontro, scendemmo entrambi al Campo 1 da dove, grazie al telefono satellitare, potei confermare che ero "vivo e vegeto" e che non ero disperso. Si era trattato solo di un "buco" nei nostri collegamenti, tutto qui.

Uno dei tuoi desideri sarebbe quello di puntare al Seven Summit, cioè scalare le montagne più alte dei sette continenti. Cos'è che spinge un uomo come te, con già sei falangi congelate, a rischiare la vita pur di riuscire a conquistare alcune vette del nostro pianeta?

E' la passione, più che altro. Una grande passione. Se si ha tempo a disposizione e condizioni fisiche adeguate per fare alpinismo e togliersi qualche soddisfazione, è un vero peccato non approfittarne. Ovviamente sono cose da fare fino ad una certa età. Chi ha tempo non aspetti tempo perché gli anni trascorrono veloci e l'alpinismo è un'attività da praticare fintanto che si è in forma sia dal punto di vista fisico che psicologico. In genere chi ama la montagna ed ha questa passione si prepara adeguatamente perché sa che i pericoli non mancano. Poi ovviamente, se è destino, può capitare di tutto, anche la tragedia.

Tutti i mass media si sono molto occupati di te e di Giuseppe Pompili. Che impressione ti ha fatto tutto questo al tuo rientro in Italia?

Sono rimasto piuttosto sorpreso da tutto il clamore che questa avventura ha suscitato. Sinceramente non me lo aspettavo... Probabilmente la vicenda è stata un pochino ingigantita. L'avranno sicuramente fatto in buona fede ma conoscendo un poco i giornalisti, i quali spesso puntano al sensazionalismo, posso anche comprendere l'accaduto.

Infine c'è stato l'affettuoso abbraccio con la mamma e con tutte le persone a lei più care. E' stato emozionante?

Moltissimo. Anche i miei colleghi di lavoro mi hanno accolto festosamente e felicemente sia per il successo conseguito, sia per il mio ritorno a casa sano e salvo.

Anche la Sezione CAI di Conegliano, di cui sei socio da oltre 25 anni, è stata in apprensione per la tua sorte.

Ringrazio di cuore tutti i soci della Sezione per avermi pensato e sostenuto moralmente. Un ringraziamento particolare lo rivolgo a coloro i quali, credendomi disperso, hanno anche recitato una preghiera per me.

Dove la prossima spedizione? In Alaska?

Sembrerebbe di si. E' ancora tutta da definire, ma penso che al 90 per cento a maggio del 2005 si andrà lassù per salire sul McKinley, a 6.150 metri.