Il Corriere del Veneto - 2 giugno 2004

L'alpinista trevigiano:

"Ho rischiato di morire per conquistare l'Everest"

La Paura - "Mentre scendevo ho visto i cadaveri di scalatori che hanno perso la vita sulla montagna. Uno era diventato una statua di ghiaccio"

L'inesattezza - "Non ero disperso, rientravo al campo-base molto lentamente. Ero diviso dal mio compagno e senza collegamenti radio o satellitari"

CONEGLIANO - "Nella tormenta di neve a trenta gradi sotto zero ho pensato che avrei potuto morire e ho iniziato a pregare. Non potevo proteggermi con i guanti termici, perché tolgono sensibilità alle mani, io invece avevo bisogno di prensilità per potermi afferrare alle rocce e alla corda doppia, dovevo superare il sesto grado, 12 metri di salti di roccia. E' un punto in cui non puoi sbagliare , un passaggio nel quale molti ci hanno rimesso la vita". Adriano Dal Cin è tornato finalmente a Conegliano. L'alpinista dato per disperso sull'Everest il 20 e il 21 maggio ieri era di nuovo nel soggiorno della sua casa in via Barbarani, 10.

 Racconta un'avventura che è stata molto più dura di quanto si immaginasse.

"Ho countinuato a scendere con i guanti più leggeri - rievoca - sentivo le mani che si ghiacciavano, ma non avevo scelta. La via era quella, la concentrazione assoluta, la mia mente era dentro i miei gesti. In alcuni momenti ho cercato anche l'aiuto di Dio, mi sono rivolto a lui con una preghiera. Ho capito di avercela fatta quando ho toccato le corde fisse che portano al campo 3. In quel momento anche la bufera si è placata e ho visto di nuovo il celeste intenso del cielo"

La mamma Raffaella lo guarda sorridente, è abituata alle imprese di Adriano, ma stavolta è stato diverso. I leggeri guanti in tela blu che gli coprono le falangi della mano sinistra congelate sono l'unico indizio di una scalata al limite, di un'impresa dal rischio estremo.

Adriano era stato dato per disperso. Si è sentito che il capospedizione, Giuseppe Pompili, gli avrebbe consigliato di non proseguire. Dal Cin con calma, chiarisce come sono andate le cose. "Mercoledì mattina, il 19 maggio, io e Giuseppe dovevamo salire insieme - spiega - invece sono tornato al campo 3 a 8.300 metri perché avevo avuto un problema all'erogatore dell'ossigeno. Entrambi eravamo attrezzati con due bombole da 4 litri che danno un'autonomia di 18 ore. Sono veramente pochi quelli che riescono ad arrivare in cima senza ossigeno, bisogna avere alle spalle un allenamento ed un fisico eccezionali"

"Risolto il problema dell'erogatore, sono partito alle 22 di mercoledì, sapendo che Giuseppe mi avrebbe aspettato fino alle 14 di giovedì - continua l'alpinista trevigiano -  Nella salita non ho avuto alcun tipo di problema, la notte era stellata, intorno a me un bianco immenso, la sensazione di essere più vicino a qualcosa che è difficile dire a parole. Alle 7.30 di giovedì mattina ero sulla vetta, ma ci sono rimasto poco, una ventina di minuti, d'improvviso il tempo è cambiato, è famoso anche per questo l'Everest. Così mi sono trovato in mezzo alla tormenta"

Quasi si materializzano i brividi provati da Dal Cin. "Scendevo piano, molto piano - ripercorre con la mente - Ci sono dei passaggi esposti, bastano una presa sbagliata, una scivolata, per morire. La morte in quelle situazioni non è solo una possibilità, ma la puoi toccare con mano. Alcuni cadaveri sono lì e ti ricordano che qualcuno non ce l'ha fatta. Nel tratto delle roccette, prima dell'antecima, ho visto un sudcoreano trasformato in una statua di ghiaccio. Forse aveva finito l'ossigeno, si è fermato e il gelo non lascia scampo. Più sotto ho incontrato altri due cadaveri. Di uno mi ha colpito il volto: bianco da un lato, scuro e bruciato dal sole dall'altro."

L'alpinista continua nella cronistoria. "Sono arrivato al campo 3 poco dopo le 16 di giovedì - puntualizza - Giuseppe se n'era già andato per raggiungere il campo 2 che io ho toccato il giorno successivo, mentre Giuseppe si portava al campo 1 a 7.050 metri. Non avevamo collegamenti radio o satellitari, per cui si è creato un "buco" nei nostri contatti e da qui è nata la notizia che ero disperso. In realtà stavo scendendo da solo, ma non avevo avuto modo di comunicarlo".

Un'altra voce diffusasi è che Dal Cin sarebbe stato aiutato dagli sherpa. "No, anche questo non è vero  - replica - Gli sherpa sono persone straordinarie che portano l'attrezzatura e sollevano gli alpinisti da una notevole fatica. Ma io e Giuseppe, per una scelta anche economica, a differenza dei nostri compagni triestini, avevamo deciso di non utilizzarli. Lo sherpa di un'altra spedizione, la mattina di sabato, al campo 2, davanti alla tenda si è messo a chiamare "Marco, Marco". In realtà stava cercando me ed è con lui che sono sceso al campo 1 dove sono arrivato stremato. Tre notti passate a 8.000 metri ti consumano come un lumicino, la mancanza di ossigeno  fa battere il cuore più veloce e toglie la voglia di mangiare".

Adriano deve riprendere anche qualche chilo perso, ma prima di tutto deve curare le falangi della mano sinistra che sono in pericolo. Per questo oggi sarà visitato dal dottor Picchi dell'ospedale di Padova. Nonostante le disavventure Dal Cin non vuol sentir parlare di chiudere con la montagna? "E' una battuta?" - conclude - "A maggio 2005, insieme a Giuseppe Pompili, saliremo sul McKinley in Alaska a 6.150 metri. Puntiamo al Seven Summit, cioè a scalare le sette montagne più alte dei sette continenti".

Mario Anton Orefice

 

LA SCALATA E IL GRUPPO

La spedizione era composta da Giuseppe Pompili (capo), di Bologna; Adriano Dal Cin di Conegliano; Alessandra Canestri e Marco Tossutti di Trieste. Nella preparazione Pompili e Dal Cin sono stati assistiti dal dottor Giulio Sergio Roi, direttore del Centro Studi Isokinetic di Bologna.

Il medico ha sottoposto i due alpinisti a test di valutazione funzionale, con programmi di allenamento personalizzati. La spedizione non era sponsorizzata, è costata 10.000 Euro a testa.

 

IL PERCORSO PER LA VETTA

Adiano Dal Cin è gli altri componenti della spedizione, per conquistare l'Everest, hanno scelto la via della cresta nord est. Dopo un mese di acclimatamento al campo base, a quota 6.400 metri, hanno iniziato a salire verso il campo 1 a quota 7.050, da qui al campo 2 a 7.800 e al campo 3 a 8.300 metri.

Gli 8.846 metri della vetta più alta del mondo sono stati conquistati da Marco Tossutti martedì 18 maggio, quando Alessandra Canestri si è fermata a 30 metri dalla cima. Pompili è giunto il 19 maggio, Dal Cin il 20 maggio alle 7.30.