Serata Culturale con Mauro Corona

presso Collegio "Dante" di Vittorio Veneto

23 maggio 2003  - Ore 20:30

Organizza la libreria "Il Viale" di Vittorio Veneto

Durante la serata l'autore presenterà in anteprima il suo nuovo libro che è stato recensito domenica 18 maggio, attraverso una intervista di Franco de Battaglia, sulle pagine de "Il Corriere delle Alpi". Riportiamo nel seguito il testo integrale dell'articolo.

Dal legno e dalla pietra può nascere un libro
Mauro Corona ha presentato il nuovo volume di racconti: «E' una scusa per parlare della vita»
UOMINI E MONTAGNE

di Franco de Battaglia

Mauro Corona è di nuovo padrone di se stesso. Ha passato un mese quasi «in prigione», dando gli ultimi ritocchi al suo libro ed ora, dopo un lungo lavoro di sgorbia e lima sulla carta, può ritornare alla sua vita e ai suoi materiali: il sasso su cui arrampica, il legno che intaglia. Il libro si intitola «Nel legno e nella pietra», ed è già un nuovo caso editoriale.
Corona è appena sceso in paese dalla sua baita, dove s'è fermato a scolpire alcuni tronchi d'albero.
Sassi e legno per costruire idee e parole?
«Il libro è una scusa, per parlare della vita e delle «tre effe» che la insegnano».
Tre «effe»?.
«Fatiche, fede e fallimenti. Se non si passa da qui non si arriva da nessuna parte».
Sono i temi del libro?
«Un libro racconta di come si è vissuti, ma in realtà è un pretesto per ricevere un conforto da chi legge. E anche di darne. E' uno scambio.
Ricevere conforto? E' ancora possibile? Da chi?
«Chiunque può insegnare con la propria vita. Ogni vita, nei suoi passaggi (e ogni libro è un passaggio, quasi una «Bocchetta» dolomitica, fra la vita dello scrittore e quella del lettore) indica dove la cresta si fa più pericolosa, dove è facile precipitare. Anche una vita cattiva può insegnare: a non imitarla. A non fare agli altri il male che l'uomo cattivo fa anche a se stesso».
Quali sono le creste dalle quali si precipita?
«I falsi miti. Credere, convincersi, che la vita non valga la pena di essere vissuta nel rispetto e nell'affetto. Che sia solo conquista, successo, roba, soldi. Quando manca la «fede» che ci sia qualcosa oltre noi stessi. Non dico Dio, ma un Assoluto sì: magari «gli altri» che hanno bisogno di noi. Quando si dice: «Ah, mi butto via, tanto non c'è niente», allora si precipita».
Si può ancora pronunciare la parola «fede»?
«Anche il grande Erri De Luca un giorno, andando su in montagna, mi disse di essere in dubbio. «Ho visto delle tracce - mi ha detto una volta parlando di Dio - ma ancora l'Orso non l'ho visto». Gli ho detto che chi va in montagna, o a caccia, sa che se ci sono le tracce c'è anche l'orso».
Ma dove portano le tracce? Si vede solo guerra intorno: bambini uccisi, natura distrutta.
«La guerra non nasce perché l'Orso resta nascosto, ma perché l'uomo getta via la propria vita, si preclude gli incontri buoni, «frega» gli altri uomini e la natura per sopraffarli. Così si arriva alla guerra. Le bombe vengono dopo».
Non ci sono bandiere della pace per questa guerra?
«La guerra nasce nell'orto del vicino, quando il gatto attraversa l'orto tuo e uccidi il gatto. Io ho visto gente, nel mio paese, con le bandiere sui davanzali e sotto a far baruffa per il confine. Per tre fili d'erba. Dovevano gettarle via quelle loro bandiere».
Gli altri precipizi? La roba? Si trova scritto che un uomo che ha due case ha due anime: che prima o poi litigano.
«Io ho imparato dalla montagna, dal legno: vivere è come scolpire. Per vivere - non dico felici, che è una parola grossa, ma tranquilli, con una certa serenità che ci prepari anche alla morte - dobbiamo imparare a togliere».
Invece aggiungiamo, accumuliamo, proprio per paura della morte, per esorcizzarla.
«Comperiamo orologi da 30 milioni, automobili da 120. Ma subito ci rendiamo conto che questi oggetti non ci danno quella potenza che ci consente di vincere la morte. Siamo invece noi a dover custodire, proteggere queste «cose» per paura che ce le rubino. Allora cadiamo nell'ansia, passiamo la vita a difendere orpelli. Dimentichiamo che un'automobile non è che una grande carriola per trasportare i nostri corpacci».
Ridicolo.
«Tragico. Ho visto il padrone di una ricca automobile scuotere il posacenere nel prato per «tenere» la sua macchina pulita. L'ho visto sporcare l'erba viva del prato, che è un pezzo di natura, di Dio, per lisciare il suo idolo. Mostruoso».
C'è un'alternativa?
«C'è un ritorno lento alla montagna che indica come anche le anime più frastornate incomincino a riflettere. Sale anche gente «foresta», dalle città. E vengono in montagna perché lì si resta in contatto con gli elementi, che non sono poi così cattivi. Questa gente sente quasi un messaggio, che è un po' una fede: «Provate, se avete un po' di tempo, a ritornare lì, a coltivare una patata, a fare un pezzo di orto». E' un buon segno. Magari taglieranno l'erba col decespugliatore, ma intano sono fra l'erba, che è un pezzo di natura, di Dio»
Si fa anche fatica, in montagna, con l'orto e l'erba.
«La fatica è la condizione per imparare a vivere. Per vivere bene. La fatica è come vangare la terra con la pala: la terra si sente viva. Quando vango la terra con fatica, voglio bene alla terra, e lei lo sente. Fare fatica è voler bene a ciò che si fa, e dopo la fatica il corpo si rilascia, dà spazio alla mente, non le impone nevrosi e impazienze. Il corpo dell'uomo come quello degli animali va usato, deve bruciare. Come la terra: va usata».
E l'alpinismo? Li si corre, il corpo «brucia», ma forse più per ostentarlo nelle spedizioni «show» che per viverlo.
«Uno dei sentimenti più comuni all'uomo è l'ambizione, però credo che quella alpinistica sia la meno distruttiva. Anch'io, che ho incominciato scappando da tutti, andando su da solitario, poi quando mi sono trovato sulla copertina di una rivista...beh, si comincia così. Però fa parte del senso dell'uomo di fronte alle grandi montagne dire «ci sono anch'io, sono bravo anch'io». Non è questo il problema dell'alpinismo».
Qual'è, allora?
«Non ho mai visto un alpinista scrivere di sconfitte».
Ci sono moltissime pagine sulle tempeste, la paura, le tragedie, la morte delgi amici...
«Ma alla fine l'eroe vince. Non è così. Io ho fatto circa 2000 scalate, ma altrettante sono tornato indietro».
Per questo il suo libro non racconta le vittorie, ma le sconfitte, i fallimenti? La terza «effe» dopo fede e fatica?
«Gli smacchi, certo. Anche perché, di fatto, la peggior sconfitta è la vittoria».
Perché?
«Perché ti lascia un pugno di mosche. E ne cerchi un'altra, allora, e un'altra. La vittoria è una fuga senza fine. Bisogna sapersi fermare».
Allora è la sconfitta la grande vittoria?
«Bisogna far tesoro della sconfitta. E' formativa. Consente di vedere cose che prima non si scorgevano. Ad essere. Invece fin da bambini insegnano che se non vinci non sei nulla».
Insegnano la competizione ai ragazzi.
«E li rovinano. Un conto è impegnarsi, fare fatica appunto, un conto è voler vincere. Un giovane deve capire che se è un carpino non può essere una betulla. Potrà fare cose stupende, ma sarà sempre diverso dalla betulla. Un giovane che mira a vincere ha già perso tutto, è sulla strada sbagliata, dovrà sempre fuggire da se stesso».
Per fingere di non sentirsi fallito?
«Siamo sei miliardi sulla terra. Non possiamo vincere tutti. No, la competizione l'ammetto solo se viene pagata, come un lavoro».
Fede, fallimenti, fatica: si riassume così la vita?
«La vera liberazione è sentire il piacere fisico della fatica senza dover vincere. Fare uno sforzo grande, ma con umiltà, per costruirsi. Se vedi quei ragazzi che a 15 anni sono in una sedia a rotelle, ed hanno una voglia di vivere immensa senza potersi quasi muovere, ti accorgi di quanta gratitudine tu debba alla vita, se puoi fare fatica».