Good Morning Jungfrau

    di Dario Facchin e Stefano Zanardo - CAI Conegliano       

 

            Da anni, dopo avere letto il libro di J.Olsen, i due volevano vedere l'Orco, il Monaco e la Verginella. Non è un film a luce rossa, ma i nomi dei 3 monti ove si svolge la tragedia narrata in "Arrampicare all'inferno": l'Eiger, il Monch, e la Jungfrau. A settembre dello scorso anno decidono quindi di partire per l'Oberland Bernese per trascorrere una settimana a Grindelwald e dintorni. Dopo un paio di notti in un albergo piuttosto malandato di Interlaken, ridente cittadina a 570 m. incastrata tra i 2 laghi di Thun e Brienz, trovano finalmente alloggio in una bella ed economica "zimmerfrei!" poco prima di Grindelwald, il paese dei ghiacciai, proprio ai piedi della famigerata parete nord dell'Eiger che si staglia maestosa di fronte alla loro finestra.

           

            Sebbene non abbiano trascurato quasi nessuna delle molte cose da vedere, e alle quali si riservano di dedicare (ahivoi!) un futuro articolo, il clou della vacanza doveva essere la mitica ascesa allo Jungfraujoch, la stazione ferroviaria più alta d'Europa a 3450 m., da dove magari partire per un'escursione sul ghiacciaio e (sognava segretamente uno dei due) raggiungere una cima. Dopo una settimana di tempo buono, ma di approfonditi studi dei bollettini meteo e di continui rinvii al fine di trovare la giornata ideale per la salita, i nostri due Bernacca "scelsero" l'ultimo giorno utile prima del rientro dalla Svizzera. La mattina fatidica, tirata la tendina della stanza di frau Egger, li accoglie un triste panorama di nuvole basse e pioggia imminente. Poco li aiuta il proverbio locale (vagamente familiare)  "Co l'Eiger l'ha el kapel, o ke piofe o ke fa bel". Alla stazione di Grund, dopo qualche tentennamento decidono per il biglietto speciale "Good Morning Jungfrau" (detto anche tariffa "pellegrini") che alla modica (forse per gli svizzeri) cifra di 93 Frs. cadatesta obbliga il ritorno entro le 12:00. Ora si mette anche a piovere, e piuttosto abbattuti salgono sul trenino a cremagliera insieme ad un'orda di ilari giapponesi.

             

            Mille metri più in su, ai 2000 m. della Kleine Scheidegg (non si è mai riusciti a dirlo due volte allo stesso modo) si cambia treno a cremagliera e subito dopo si entra nelle viscere dell'Orco per i 9 Km. di galleria con 2 aperture sugli opposti versanti dell'Eiger. Prossima fermata quasi al centro della grande parete Nord è la stazione di Eiger Wand (famosa per i drammatici salvataggi agli alpinisti) con stupenda vista sulla nebbia e nevischio, e le scariche di neve dalla parete sovrastante i finestroni. Seconda sosta sulla parete Est con altra memorabile vista sulle finestre appannate ed accecati dai flash dei Japs ridotti ad immortalare i manifesti appesi alle pareti. Dopo un totale di 1 h ½ di treno, finalmente si liberano del coreano tutto sorrisi che avendo studiato a Perugia non gli pare vero di esercitare il suo (scarso) italiano: fa parte di un gruppo impegnato in un tour de force turistico; ieri erano partiti da Parigi, provenienti da Londra, e domani dovevano essere a Milano per poi raggiungere Venezia.

           

            Dopo avere vagato un po' per l'enorme e superattrezzata stazione visitando le diverse attrazioni turistiche, sebbene il tempo fosse pessimo i nostri eroi non perdono tutte le speranze. Il capo spedizione, già con grossi problemi di quota e che iperventila come Maiorca ai tempi d'oro, chiede informazioni per andare al rif. Monchhutte a m.3629., per il quale c'è da attraversare la parte sommitale del ghiacciaio Jungfraufirn: i due temono a causa della scarsissima visibilità di potersi perdere o di finire in qualche crepaccio. L'omino dell'ufficio informazioni li smonta completamente rivelando che il percorso veniva battuto più volte al giorno ed era delimitato da paletti: l'unico reale pericolo è di essere travolti dai gatti delle nevi che fanno la spola tra rifugio e stazione. Decidono quindi di affrontare impavidi le intemperie, e dopo aver percorso una lunga galleria sbucano finalmente sul ghiaccio bardati di tutto punto come la quota e le condizioni meteo consigliano. Ai loro occhi si presenta uno spettacolo che mozza loro il (poco) fiato. Il ghiacciaio brulica di turisti soprattutto orientali, in scarpette da ginnastica felpe leggere e ombrellini colorati che vagano tra cani da slitta e gatti delle nevi. I due grandi alpinisti sdegnati tirano dritto, e dopo aver rischiato di girare in tondo sul percorso dei cani da slitta prendono infine la direzione del rifugio e traversando sotto la spettacolare seraccata del Monch arrivano al grande rifugio abbarbicato sulla roccia ancora avvolti da nebbia e neve.

           

            Tra un'ovomaltina e un te al limone, improvvisamente dalla finestra entra una luce abbagliante: la giornata volgeva miracolosamente al bello, aprendo stupendi panorami sulle cime e ghiacciai circostanti. Così illuminati prendono la clamorosa decisione di tentare la salita della cresta sud del Monch (4099 m.), seguendo le tracce sulla neve di altri alpinisti impegnati sulla stessa salita. Attraversato il piatto nevaio iniziale però, mentre si legano in cordata e mettono i ramponi, passano gli ultimi rinunciatari che scendono a causa della neve farinosa che nasconde le rocce della cresta. Rimasti quindi soli sulla montagna riprendono comunque la salita, senza farsi intimorire dal boato che il crollo di un seracco fa rimbombare lungo la parete di sinistra proprio mentre sono impegnati a superare con lunghe e complicate manovre di corda (degne di Maestri al Cerro Torre) il primo tratto di difficoltà pari al grado 0,2 inferiore della scala UIAA.

           

            Dopo un tratto facile su neve, arrivati ai piedi di una fascia di roccette il secondo di cordata decide improvvisamente di abbandonare forse perché poco convinto delle condizione psichiche del compagno che patisce la quota e manco si è accorto di aver perso una lente degli occhiali da sole. Inoltre si è levato un forte vento da ovest che spazzando la cresta ricopre le tracce rendendo difficile un ritorno con visibilità scarsa. Per punizione viene obbligato a riportare a valle gran parte del contenuto dello zaino del capocordata compresa la pesante corda  bagnata, nonché a prestargli gli occhiali. Dopo breve discesa si separano, e mentre il primo risale sui suoi passi il secondo ritorna al rifugio a recuperare il resto del materiale, per arrancare poi verso lo Jungfraujoch carico come uno yak.

           

            Intanto l'altro è impegnato in un certosino lavoro di ripulitura delle rocce dalla neve fresca recente (manca solo che dia anche la cera), allo scopo di portare alla luce ogni possibile appiglio o appoggio per i ramponi. Il brillante risultato è di trasformare i guantini in pile in due iceberg. La temperatura è sempre vicina ai -10°, ma pur con andatura da bradipo e sbuffando come un mantice il nostro prosegue la salita, che alterna tratti di arrampicata su roccette a crestine nevose a volte affilate e a volte larghe ma orlate verso est da grandi cornici. Ma ad ogni passo con la quota oltre al mal di testa aumentano anche i suoi dubbi: non ha molto tempo prima dell'ultima corsa del treno alle 18, è solo in un ambiente nuovo e sconosciuto e lo preoccupa il dover rifare in discesa diversi tratti impegnativi.

           

            Arrivato intorno ai 4000 m. ai piedi dell'ultimo non facile saltino di rocce prima della cresta nevosa finale, una ridicola nuvoletta oscura per un attimo il sole. Il nostro eroe non si lascia sfuggire l'occasione, e decide che a causa dell'imminente bufera bisogna scendere. L'alibi non regge che pochi minuti, ma quanto basta perché il sole lo sorprenda quando ormai è ben avviato sulla strada del ritorno. La discesa è senza storia tranne su una crestina per una quasi scivolata fermata dalla piccozza, cosa che gli fa incanutire qualche altro capello. Approdato finalmente alla base nonostante la perdita di quota si sente lo stesso uno straccio, e tipo ritirata di Russia si trascina fino alla stazione. Lo accoglie fresco come una rosa l'amico, nelle cui vene deve scorrere sangue sherpa (e forse qualche grappino), che nell'attesa dopo aver diviso i suoi ultimi viveri con uno stormo di famelici gracchi svizzeri, aveva visitato lo Sphinx (la Sfinge), il panoramico osservatorio astronomico che sorge in cima allo spuntone roccioso alto più di 100 m. dentro la cui base è costruita la stazione. Esso è protetto da un'enorme gabbia di Faraday in quanto sorge in un punto molto pericoloso per i fulmini che possono colpire anche a ciel sereno (almeno così recita la guida), ed è comodamente raggiungibile con un velocissimo e trasparentissimo ascensore, che però all'arrivo dello "zombie" ha già chiuso l'orario di apertura: così ai due non rimane che attendere la partenza del trenino sulla terrazza belvedere al terzo piano. Per raggiungerla lo scoppiato sale le poche rampe con approccio Himalayano (ogni 3 gradini una pausa per rifiatare), e dopo aver scattato qualche foto a casaccio non gli pare vero di riprendere il treno verso quote più ossigenate per attenuare il feroce mal di testa. Il controllore forse impietosito finge di non accorgersi del biglietto "Goodmorning-Jungfrau-rientro-entro-le-12:00" e non fa pagare la cospicua differenza. Giungono così a valle e dopo una doccia ristoratrice portano le loro stanche gambe sotto un tavolo del ristorante italiano "Mercato" di Grindelwald, dove tra una portata e l'altra e tracannando come sifoni, già programmano di tornare in questi bellissimi luoghi la prossima estate.